TRIBUNALE ORDINARIO DI VARESE Sezione penale Ordinanza di sottoposizione alla Corte costituzionale di questione di legittimita' costituzionale Il Tribunale in composizione collegiale, composto dai seguenti magistrati: Dott.ssa Anna Azzena - Presidente; Dott. Stefano Colombo - Giudice estensore; Dott.ssa Antonella Vitale - Giudice onorario; Rileva quanto segue. Con decreto che dispone il giudizio del 15 maggio 2014, P.S. e G.A. sono stati rinviati a giudizio dinnanzi a questo Tribunale in composizione collegiale per rispondere del delitto di cui agli art. 110, 567 comma 2 c.p.p., perche', in concorso fra loro, nella formazione di un atto di nascita, alteravano lo stato civile di una neonata, mediante false attestazioni. In particolare, nell'atto di dichiarazione di nascita del giorno ... presso l'Ospedale del ... dichiaravano che la bambina neonata di nome M.S. era nata dall'unione naturale dei dichiaranti; cio' contrariamente al vero, in quanto il padre biologico non era P.S. (commesso in ... il ...). All'esito dell'istruttoria dibattimentale, gia' precisate le conclusioni delle parti, questo Tribunale ritiene profilarsi questione di legittimita' costituzionale dell'art. 567 comma 2 c.p., norma incriminatrice astrattamente applicabile al caso concreto in esame, nella parte in cui stabilisce un trattamento sanzionatorio eccessivo, con riferimento al disvalore della condotta penalmente rilevante, nonche' manifestamente sproporzionato, anche alla luce di un'interpretazione sistematica della norma, comparata con le altre disposizioni del Capo III del Titolo XI del Codice Penale, cosi' ponendosi in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 27 della Costituzione, che costituiscono i parametri di riferimento della questione sottoposta a questa Ecc.ma Corte. 1. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale. La questione si presenta, anzitutto, non manifestamente infondata. L'art. 567 commma 2 c.p., com'e' noto, sanziona con la reclusione da un minimo di 5 ad un massimo di 15 anni chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsita'. La cornice edittale cosi' individuata si presenta, da un lato, eccessiva, per quanto riguarda, in modo particolare, il minimo edittale pari a 5 anni di reclusione, dall'altro lato, sproporzionata, sol che si raffronti la condotta incriminata dalla disposizione de qua con le altre norme di sistema, in particolare con quelle del medesimo Capo III del Titolo Xl del Codice, che sanzionano comportamenti illeciti della medesima indole, oltre che - a parere di questo Tribunale remittente - ben piu' gravi sotto il profilo della capacita' a delinquere e tali da destare un maggiore allarme sociale. In primo luogo, ritiene questo Tribunale che la disposizione che viene sottoposta al vaglio di questa ecc.ma Corte preveda un minimo edittale di pena manifestamente eccessivo, tale da non consentire di adeguare la sanzione alle circostanze specifiche del fatto concreto e, in modo particolare, agli effettivi profili di allarme sociale conseguenti alla condotta posta in essere dagli imputati P. e G. A tal proposito, e' necessario premettere come la ratio incriminatrice dell'art. 567 comma 2 c.p. debba essere individuata, anche con il conforto della miglior dottrina penalistica, nell'esigenza di assicurare la certezza e la fedelta' dello stato civile del neonato, attribuitogli al momento della nascita, attraverso la corretta e veritiera formazione del documento finalizzato a certificarlo, ossia l'atto di nascita, in modo tale da garantire l'attribuzione al neonato della sua discendenza effettiva (maternita' e paternita' naturali), mettendolo al riparo da ogni tentativo di mistificazione ed alterazione del suo stato, a qualsiasi titolo posti in essere. Il bene giuridico tutelato dalla norma in questione dev'essere, quindi, ravvisato nella certezza all'attribuzione veritiera e fedele della propria maternita' e della propria paternita' naturale, che costituisce un diritto fondamentale di ogni individuo, tanto sotto un profilo di carattere morale (inteso quale diritto a conoscere le proprie radici e la propria discendenza) quanto sotto un profilo di natura materiale (per quanto riguarda gli aspetti di natura successoria, conseguenti al rapporto di filiazione, anche al di fuori dei vincolo matrimoniale). E' evidente che, allorquando e' stato promulgato il Codice Penale, l'atto di nascita, contenente le dichiarazioni presentate all'Ufficiale di Stato Civile al fine di attribuire la maternita' e la paternita' naturali al neonato, costituiva il principato - se non l'unico - strumento per attestare e dimostrare lo stato civile dello stesso. Conseguentemente, era necessario tutelare il bene giuridico sopra indicato; ossia il diritto del neonato alla corretta e veridica attribuzione della propria discendenza, attraverso la previsione di una sanzione penale particolarmente incisiva e severa, che potesse, tra le altre finalita', svolgere un'adeguata funzione deterrente, al fine di scoraggiare (in un'ottica general-preventiva) ogni tentativo di formazione di un atto di nascita non corrispondente al vero, mediante false attestazioni, false certificazioni o altre falsita'. Non puo' non mettersi in evidenza, infatti, la circostanza che, stante la mancanza di strumenti alternativi all'atto di nascita che consentissero di ricostruire con certezza gli effettivi rapporti di maternita' e paternita' naturali del neonato, la formazione - attraverso dichiarazioni contrarie al vero - di un atto di nascita infedele avrebbe reso estremamente ardua, se non addirittura impossibile (soprattutto con il trascorrere del tempo), la corretta attribuzione dell'effettivo stato civile del neonato. La previsione di un range di pena estremamente elevato (con un minimo di 5 ed un massimo di 15 anni di reclusione) trovava, quindi, la propria ragione giustificativa nel disvalore eccezionalmente grave della condotta, atteso che dichiarare false attestazioni, fornire false certificazioni o porre in essere, comunque, altre falsita' volte a formare un atto di nascita non veritiero significava, sostanzialmente e quasi certamente, privare il neonato dei suoi genitori naturali (entrambi od uno solo), con le conseguenze dannose, facilmente prevedibili, tanto a livello morale - psicologico (mancanza o, comunque, incompleta ed inesatta conoscenza della propria discendenza reale) tanto a livello economico - materiale, nell'ambito dei rapporti ereditari. In tal senso, il disvalore della condotta criminosa contemplata dal secondo comma dell'art. 567 c.p. (alterazione di stato mediante formazione di un atto di nascita falso, che qui interessa) risultava sicuramente piu' intenso rispetto a quello della condotta tipizzata dal primo comma della medesima norma, che presuppone l'alterazione di stato civile non gia' mediante la formazione di un atto falso bensi' attraverso la sottrazione del neonato e la sua sostituzione con un altro, entrambi comunque gia' riconosciuti e quindi, muniti di atti di nascita veritieri, cosi' configurando una condotta puramente materiale che, per quanto grave, consentiva, comunque, di attribuire correttamente - in futuro - ciascun interessato lo stato civile suo proprio, con maggiore facilita' rispetto alla falsificazione ab origine dell'atto di nascita. Il panorama normativo cosi' descritto, certamente adeguato e calzante alle esigenze di tutela dello stato civile del neonato, al momento della promulgazione del Codice Penale, non puo' piu' essere considerato adeguato alla situazione concreta attuale e, pertanto, non risponde piu' all'effettivo bisogno di salvaguardia del bene giuridico protetto dalla norma ne' allo specifico allarme sociale delle condotte criminose poste in essere in violazione della stessa. I progressi scientifici, medici e tecnologici realizzatisi, con un'accelerazione sempre maggiore, soprattutto negli ultimi anni consentono, infatti, di accertare l'effettiva paternita' e maternita' di un individuo - con una certezza pressoche' assoluta - attraverso accertamenti svolti sul proprio DNA (le cosiddette "prove tecniche"), con procedure minimamente invasive (essendo sufficiente il prelevamento di campioni biologici - sangue, saliva, capelli... - degli interessati), del tutto prive di pericolosita', nonche' particolarmente rapide ed economiche. Di tale, fondamentale, innovazione scientifica hanno tenuto conto, anzitutto, il legislatore, prevedendo alcune novelle legislative, anche in ambito penalistico (si pensi, ad esempio, all'introduzione, con legge del 30.06.2009 n. 85 degli artt. 224-bis e 359-bis c.p.p.) quanto la giurisprudenza, anche di questa ecc.ma Corte. A tal proposito, giova richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 266 del 21.06.2006, con cui e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 235 comma 1 n. 3 c.c. (norma che prevede i casi in cui e' ammessa l'azione per il disconoscimento della paternita') "nella parte in cui subordina l'esame delle "prove tecniche", da cui risulta che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre alla previa dimostrazione dell'adulterio della moglie," in tal modo sdoganando il ricorso agli accertamenti sul materiale genetico (in particolare, il DNA) ed avvalorando l'intrinseca attendibilita' dei risultati conseguenti. Lo stesso legislatore, con la riforma operata attraverso il d.lgs. n. 154 del 28.12.2013 (cosiddetta "riforma del diritto di famiglia") ha profondamente innovato, tra le altre, anche la disciplina civilistica in materia di filiazione legittima e naturale, da un lato parificando in toto lo status di figlio legittimo e di figlio naturale (nato al di fuori di un rapporto matrimoniale), dall'altro ridimensionando notevolmente l'importanza dell'atto di nascita ai fini della prova della filiazione (a qualsiasi titolo, legittima o naturale) e dando, conseguentemente, maggior incidenza alle cosiddette "prove tecniche," ossia agli accertamenti sul corredo genetico degli interessati. E' pur vero che, anche nell'attuale impianto normativo, l'atto di nascita costituisce, ai sensi dell'art. 236 c.c., la principale prova dello stato di filiazione legittima, tuttavia, a differenza di quanto previsto dal Codice Civile prima della riforma del 2013, il novellato art. 239 (in combinato disposto con l'art. 238) consente la reclamabilita' di uno stato di figlio contrario a quello attribuito dall'atto di nascita (anche) nell'ipotesi in cui il neonato sia stato iscritto come figlio di ignoti ovvero in conformita' di altra presunzione di paternita'. Inoltre, l'art. 243 c.c. riconosce anche al figlio (oltre al presunto padre ed alla madre) l'azione per il disconoscimento della paternita', gravandolo dell'obbligo di fornire la prova (con qualsiasi mezzo, ai sensi del precedente art. 241, e, quindi, anche con il ricorso alle "prove tecniche") dell'insussistenza del rapporto di filiazione. Occorre, altresi', notare che, in caso di esperimento vittorioso dell'azione di disconoscimento della paternita', il figlio, cosi' rimosso il precedente statua, ha la possibilita', ex art. 239 comma 4 di promuovere l'azione per reclamare un diverso stato di figlio, ovvero l'azione per il riconoscimento della paternita' che, ai sensi dell'art. 244 puo' essere proposta anche dal figlio ovvero da un curatore speciale, anche in questo caso dando la prova del rapporto di filiazione "con qualunque mezzo," tra cui anche gli accertamenti genetici. Al di fuori del rapporto di filiazione legittima, il Codice Civile contempla la possibilita' di effettuare indagini sulla paternita' e la maternita', anche attraverso i predetti accertamenti sul DNA, al fine di procedere al riconoscimento dei figli naturali (ai quali sono, attualmente, attribuiti uno statua ed una tutela giuridica analoghi a quelli dei figli legittimi), nonche' nell'ambito dell'azione promossa per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternita' e maternita'. Anche in quest'ultimo caso, la prova del rapporto di filiazione puo' essere data "con ogni mezzo", ai sensi dell'art. 269 comma 2 c.c., facendo ricorso, in altre parole, (anche) agli accertamenti genetici che costituiscono, attualmente, il mezzo di prova piu' diffuso ed in grado di assicurare il maggior livello di certezza dei risultati. Proprio la Corte costituzionale, a riprova dell'importanza riconosciuta al bene giuridico della certezza del proprio stato e della propria discendenza e del ruolo di primaria importanza rivestito, in tal senso, dalle "prove tecniche," e' intervenuta dichiarando - con sentenza n. 494 del 28.11. 2002, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 278 c.c. nella parte in cui "esclude la dichiarazione giudiziale della paternita' e maternita' naturali e le relative indagini, nei casi in cui, a norma dell'art. 251 primo comma, il riconoscimento dei figli incestuosi e' vietato" (peraltro, il legislatore, con il citato d.lgs. n. 154/2013,e' successivamente intervenuto sull'art. 251 c.c., ammettendo il riconoscimento dei figli incestuosi, previa autorizzazione del Giudice). A fronte delle anzidette modifiche del contesto normativo, si puo' cogliere il ridimensionamento della funzione dell'atto di nascita ai fini dell'accertamento della discendenza naturale del neonato. Infatti, sebbene l'atto di, nascita costituisca ancora la prova principale del rapporto, di filiazione, nondimeno la maternita' e la paternita' naturali possono essere acclarate, laddove l'atto di nascita risulti mancante ovvero alterato, attraverso altri mezzi di prova, specificamente gli accertamenti genetici e sul gruppo sanguigno, idonei a garantire risultati aventi certezza pressoche' assoluta. Ne consegue che l'ipotesi di alterazione di stato contemplata dall'art. 567 comma 2 c.p., pur mantenendo ancora sicuro rilievo penale, risulta assolutamente ridimensionata sotto il profilo della gravita' e del disvalore della condotta. La possibilita' di ricorrere ad altri strumenti di prova per accertare i rapporti di filiazione facenti capo al neonato diminuisce sensibilmente, rispetto al passato, le conseguenze dannose della falsificazione dell'atto di nascita, mediante dichiarazioni non veritiere, atteso che, grazie alle innovazioni medico-scientifiche sopra indicate, il corretto accertamento dello stato civile del neonato, pur in presenza di un atto di' nascita non corrispondente al vero, risulta comunque possibile, e non particolarmente complesso, attraverso accertamenti sicuri, non invasivi e facilmente accessibili. In tal senso, al contrario di quanto accadeva in passato, quand'era ancora precluso il ricorso a tecniche di accertamento ed analisi del corredo genetico di un individuo, si profila, attualmente, piu' grave ed allarmante la fattispecie di alterazione di stato mediante la sostituzione di neonato, contemplata al primo comma dell'art. 567 c.p. e sanzionata con una pena decisamente inferiore rispetto a quella prevista dalla disposizione de qua (reclusione da 3 a 10 anni), Tale norma incriminatrice presuppone, infatti, una condotta che si sostanzia nella materiale apprensione del neonato e nella sua sostituzione con un altro e che denota, pertanto, una maggior risoluzione ad agire da parte del reo, una consapevolezza piu' marcata dell'intrinseca antigiuridicita' della condotta ed una piu' spiccata propensione a delinquere, rispetto alla mera dichiarazione di un dato non corrispondente al vero che, seppur comunque caratterizzata da antigiuridicita', puo' essere determinata anche da un basso livello di scolarizzazione e di conoscenza dell'ordinamento giuridico da parte del dichiarante, che non gli consente di comprendere con pienezza il disvalore della condotta. Il Capo III del Titolo XI del Codice Penale contempla, altresi', ulteriori disposizioni incriminatrici che appaiono, attualmente, connotate da maggior gravita' della condotta e tali da destare un maggior allarme sociale, quali la soppressione di stato civile mediante occultamento del neonato, sanzionato con la pena da 3 a 10 anni (art. 566 comma 2 c.p.) e l'occultamento di stato civile di un figlio, punito con la reclusione da 1 a 5 anni (art. 568 c.p.). A fronte delle considerazioni che precedono, si deve osservare come la cornice edittale di pena prevista dall'art. 567 comma 2 c.p. appaia, quindi, assolutamente eccessiva rispetto alla gravita' oggettiva della condotta incriminata, alla luce delle conoscenze mediche, scientifiche e tecnologiche attuali. Oltre ai rilievi sopra marginati, si deve rilevare la manifesta eccessivita', in particolare, del minimo edittale di pena previsto dall'art. 567 comma 2 c.p., determinato in 5 anni di reclusione, che non consente al Giudice di eventualmente adeguare il trattamento sanzionatorio alle circostanze concrete del fatto. Non si puo', infatti, sottacere come la determinazione psicologica che spinge il soggetto agente a presentare false certificazioni o attestazioni o a rendere false dichiarazioni, al fine di alterare lo stato civile di un neonato, sia, sovente, connotata non gia' da pulsioni egoistiche o finalizzate a trarre un lucro, un indebito vantaggio o un ingiusto profitto dall'alterazione, bensi' dal desiderio di aiutare, in qualche modo, proprio il neonato che si va, falsamente, a riconoscere come figlio proprio. Si puo', quindi, sostenere che, in molti casi, la condotta antigiuridica tipizzata dall'art. 567 comma 2 c.p. viene posta in essere proprio nell'interesse del neonato stesso (magari privo di un padre o che il genitore naturale non intende riconoscere), al quale il soggetto agente intende dare comunque dei legami famigliari, ancorche' in un'ottica certamente distorta e scorretta. In tal senso, anche laddove si ritenesse applicabile la circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 1 c.p., la pena concretamente applicabile al soggetto agente rimarrebbe, comunque, eccessiva rispetto alle caratteristiche concrete del fatto, con diverse ripercussioni pratiche che appaiono del tutto irragionevoli ed ingiustificate. In primo luogo, la sanzione irrogata, ancorche' determinata a partire dal minimo edittale ed eventualmente ridotta per l'attenuante sopra indicata, precluderebbe, comunque, la possibilita' di concedere i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna ad un soggetto che, per quanto abbia commesso un reato, non ha manifestato alcun profilo antisociale o tale da destare un particolare allarme sociale. In secondo luogo - e conseguentemente - la sanzione concretamente applicata non potrebbe che apparire, ad un soggetto che, lo si ribadisce, ha ritenuto (erroneamente) di agire nell'interesse del neonato e non gia' per un proprio tornaconto, assolutamente priva di ogni giustificazione logica e, quindi, fondamentalmente ingiusta. Questo Tribunale e' consapevole che l'ecc.ma Corte adita ha gia' avuto modo di pronunciarsi su questioni di legittimita' costituzionali del medesimo tenore di questa proposta in tale sede ma, nondimeno, osserva che si tratta di decisioni precedenti alle modifiche normative sopra illustrate e che, conseguentemente, non potevano tenere conto del riconoscimento - anche a livello legislativo - del valore e dell'importanza dei nuovi strumenti tecnici, scientifici e medici di accertamento dei rapporti genetici tra individui. Tale riconoscimento, como' piu' volte ribadito, ha profondamente alterato, a parere di questo Tribunale remittente, i presupposti giustificativi del quantum della sanzione penale contemplata dall'art. 567 comma 2 c.p., determinando un sostanziale ed evidente squilibrio tra la gravita' della condotta tipica contemplata dalla norma incriminatrice e la cornice edittale di pena prevista, con cio' rendendo possibile un nuovo vaglio della legittimita' costituzionale della disposizione in oggetto, da parte di questa Ill.ma Corte, quantomeno sotto il profilo della ragionevolezza. Tali considerazioni trovano, altresi', conferma in alcuni pronunciamenti della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che, facendo riferimento a disposizioni del diritto comunitario, hanno contribuito a ridimensionare sensibilmente la pregnanza dell'atto di nascita come strumento volto all'accertamento dei rapporti di paternita' e maternita' e, conseguentemente, il disvalore delle sue alterazioni. In particolare, con la sentenza del 27.01.2015 (causa Paradiso e Campanelli c. Italia), la Sezione Seconda della CEDU ha accolto il ricorso, per violazione dell'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, proposto da una coppia di coniugi italiani contro lo Stato Italiano, laddove non era stato riconosciuto (ed era stato considerato "alterato", con cio' integrando il delitto di cui all'art. 567 comma 2 c.p, che qui interessa) l'atto di nascita in cui un neonato veniva riconosciuto come figlio dei due coniugi, nonostante lo stesso fosse stato concepito in vibro, attraverso le tecniche di fecondazione artificiale eterologa avvenuta in Russia, e nonostante gli accertamenti genetici sul DNA del marito e del neonato avessero attestato l'inesistenza di qualsivoglia rapporto genetico tra i due. La Corte ha richiamato, piu' nel dettaglio, l'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha assunto violato, laddove garantisce, per ogni individuo "il rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza," con il divieto di "ingerenza di una autorita' pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una societa' democratica, e' necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle liberta' altrui." La Corte ha precisato, quindi, che sono legittime le limitazioni previste dalle leggi nazionali di ogni singolo Stato, purche' volte a "perseguire uno scopo legittimo", e siano determinate dall'esigenza di "essere necessarie in una societa' democratica," evidenziando, altresi', che "la nozione di necessita' implica una ingerenza fondata su un bisogno sociale imperioso e, in particolare, proporzionato allo scopo legittimo perseguito." A parere di questo Tribunale, se e' sicuramente legittima la pretesa punitiva di comportamenti caratterizzati dall'alterazione di un atto di nascita, la previsione di una cornice edittale di pena irragionevolmente elevata, come quella contemplata dall'art. 567 comma 2 c.p., contrasta - violando il citato art. 8 CEDU - con la necessaria proporzione tra l'ingerenza dell'autorita' pubblica nella vita privata e nei rapporti famigliari di ciascun individuo che, comunque, e' rappresentata dalla norma incriminatrice in questione, e la tutela dell'ordine pubblico e della pubblica fede che la stessa intende perseguire, quale scopo legittimo, soprattutto in quanto preclude al Giudice di merito la determinazione di una pena ragionevolmente correlata alla gravita' del fatto e ai motivi che hanno spinto l'imputato ad agire. 2. I principi di rango costituzionale violati dall'art. 567 comma 2 c.p. Costituisce principio assodato che e' precluso al vaglio di questa ecc.ma Corte qualsivoglia sindacato di costituzionalita' in relazione alle questioni strettamente inerenti alla politica criminale, le valutazioni punitive e le quantificazioni sanzionatorie, di volta in volta decise dal legislatore. Nondimeno, si ritiene che, nel caso di specie, la previsione sanzionatoria dell'art. 567 comma 2 c.p. non costituisca una legittima scelta normativa di politica criminale. Infatti, a fronte di un'evoluzione della situazione fattuale concreta (di cui il legislatore ha preso atto, ad esempio attraverso la sopra descritta riforma del diritto di famiglia, operata con il d.lgs. n. 154/2013), i profili di criticita' evidenziati da questo Tribunale non sono mai stati presi in considerazione dall'organo titolare del potere legislativo. In forza delle considerazioni che precedono, pertanto, la cornice edittale di pena prevista dall'art. 567 comma 2 c.p. appare contrastante con numerosi principi di livello costituzionale. In primis, la norma si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza, che costituisce il fondamento del dettato dell'art. 3 Cost., laddove sanziona con una pena decisamente piu' elevata un comportamento che, ad oggi, ha perduto quei connotati di gravita' e di allarme sociale che giustificavano un trattamento sanzionatorio particolarmente rigoroso e severo, rispetto ad altre condotte, previste e punite dal medesimo Capo III del Titolo XI, che appaiono ugualmente se non ancora piu' gravi. Questa Ill.ma Corte adita ha ribadito, con numerose pronunce, la possibilita' di vagliare la cornice edittale di pena determinata dal legislatore, sotto il principio della ragionevolezza di tale determinazione, ovvero della sua rispondenza ai bisogni effettivi di tutela della collettivita' e al grado effettivo di antigiuridicita' e gravita' del comportamento incriminato. A tal proposito, giova richiamare la sentenza n. 409 del 1989, con la quale la Corte ha affermato che "il principio di uguaglianza... esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito coi messo, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali," precisando altresi' che "le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio puo' essere censurato soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza," nonche' la sentenza n. 341 del 1994 in cui, dichiarando l'illegittimita' costituzionale del minimo edittale previsto dalla fattispecie di oltraggio di cui all'art. 341 comma 1 c.p., pur confermando "il principio secondo cui appartiene discrezionalita' del legislatore la determinazione della quantita' e qualita' della sanzione penale" e ribadendo che "non spetta alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, ne' stabilire quantificazioni sanzionatorie", ha tuttavia richiamato il proprio compito di "verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia rispetti il limite di ragionevolezza" e "di valutare la rispondenza della previsione contestata segnatamente al principio di' proporzionalita'.". Piu' nel dettaglio, con riferimento alla norma impugnata, appare irragionevole la previsione di un trattamento sanzionatorio piu' mite per comportamenti che, ancorche' attraverso diverse modalita', incidono, comunque, sullo stato civile del neonato, precludendo (salvi i futuri accertamenti sul patrimonio genetico degli interessati) il corretto accertamento della discendenza effettiva del neonato (in particolare, i gia' richiamati delitti di soppressione di stato e di occultamento di stato). Ugualmente irragionevole - e, pertanto, contrastante con il principio di cui all'art. 3 Cost. - e' la previsione di un trattamento sanzionatorio meno severo per una condotta, quale la sostituzione di un neonato contemplata dal comma 1 dell'art. 567 c.p., che non soltanto conduce all'esito analogo di alterare lo stato civile del neonato ma si caratterizza per una maggior propensione a delinquere del soggetto agente, il quale non si limita ad attestare o dichiarare fatti contrari al vero ma pone in essere un vero e proprio scambio di neonati, risolvendosi a compiere un'azione che, anche ad un soggetto scarsamente scolarizzato e con un basso livello di cultura, non puo' che apparire assolutamente illecita. In secondo luogo, l'art. 567 comma 2 c.p. si pone in contrasto con il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. Come sopra rilevato, infatti, la previsione di una pena eccessiva rispetto alla gravita' della condotta, soprattutto quanto al minimo edittale, nonche' sproporzionata rispetto alle altre condotte contemplate dalle disposizioni del medesimo Capo, impedisce al Giudice di adeguare la sanzione concretamente inflitta all'imputato, in caso di condanna, alle circostanze del fatto, e al reo stesso di comprendere adeguatamente, con piena consapevolezza, il disvalore del proprio comportamento. Di conseguenza, appare radicalmente frustrata la finalita' propria della sanzione penale, come solennemente sancita dall'art. 27 comma 3 Cost., laddove, per poter effettivamente tendere a una significativa rieducazione del condannato che non si riduca a una mera formalita' altisonante, la pena dev'essere, innanzitutto, compresa dal reo, nella sua entita' e nei suoi presupposti giustificativi, tenuto conto che l'applicazione di una sanzione penale eccessiva e non commisurata alle circostanze concrete del fatto non puo' che apparire ingiusta, agli occhi del condannato, cosi' ingenerando in lui la convinzione di essere vittima di un sopruso da parte dell'Autorita' Giudiziaria, sentimento che osta, in radice, a una reale e profonda resipiscenza. 3. Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale sul giudizio a quo. La questione di legittimita' che questo Tribunale sottopone al vaglio di questa ecc.ma Corte ha certamente rilevanza nel presente processo a carico di P.S. e G.A. tenuto conto che, ferma restando ogni considerazione di merito in ordine alla sussistenza della responsabilita' penale degli imputati, in caso di condanna non potrebbe che trovare applicazione la norma di cui si contesta, in questa sede, l'aderenza al dettato costituzionale, con la conseguente determinazione della sanzione da irrogare inevitabilmente all'interno della cornice edittale della stessa.