TRIBUNALE ORDINARIO DI VARESE 
                           Sezione penale 
 
    Ordinanza  di  sottoposizione  alla   Corte   costituzionale   di
questione di legittimita' costituzionale 
    Il Tribunale in composizione collegiale,  composto  dai  seguenti
magistrati: 
    Dott.ssa Anna Azzena - Presidente; 
    Dott. Stefano Colombo - Giudice estensore; 
    Dott.ssa Antonella Vitale - Giudice onorario; 
    Rileva quanto segue. 
    Con decreto che dispone il giudizio del 15 maggio  2014,  P.S.  e
G.A. sono stati rinviati a giudizio dinnanzi a  questo  Tribunale  in
composizione collegiale per rispondere del delitto di cui  agli  art.
110, 567 comma  2  c.p.p.,  perche',  in  concorso  fra  loro,  nella
formazione di un atto di nascita, alteravano lo stato civile  di  una
neonata, mediante false attestazioni. In  particolare,  nell'atto  di
dichiarazione di nascita del giorno ...  presso  l'Ospedale  del  ...
dichiaravano che la bambina neonata di nome M.S. era nata dall'unione
naturale dei dichiaranti; cio' contrariamente al vero, in  quanto  il
padre biologico non era P.S. (commesso in ... il ...). 
    All'esito  dell'istruttoria  dibattimentale,  gia'  precisate  le
conclusioni  delle  parti,  questo   Tribunale   ritiene   profilarsi
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 567 comma 2  c.p.,
norma incriminatrice astrattamente applicabile al  caso  concreto  in
esame, nella parte in cui  stabilisce  un  trattamento  sanzionatorio
eccessivo, con riferimento al  disvalore  della  condotta  penalmente
rilevante, nonche' manifestamente sproporzionato, anche alla luce  di
un'interpretazione sistematica della norma, comparata  con  le  altre
disposizioni del Capo III del Titolo  XI  del  Codice  Penale,  cosi'
ponendosi in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 27  della
Costituzione, che costituiscono  i  parametri  di  riferimento  della
questione sottoposta a questa Ecc.ma Corte. 
1.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale. 
    La  questione  si   presenta,   anzitutto,   non   manifestamente
infondata. 
    L'art. 567 commma 2 c.p., com'e' noto, sanziona con la reclusione
da un minimo di 5 ad un massimo di 15 anni chiunque, nella formazione
di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante
false certificazioni, false attestazioni o altre falsita'. 
    La cornice edittale cosi' individuata si presenta,  da  un  lato,
eccessiva, per  quanto  riguarda,  in  modo  particolare,  il  minimo
edittale  pari   a   5   anni   di   reclusione,   dall'altro   lato,
sproporzionata, sol che si raffronti la  condotta  incriminata  dalla
disposizione de qua con le altre norme di sistema, in particolare con
quelle del medesimo Capo III del Titolo Xl del Codice, che sanzionano
comportamenti illeciti della medesima indole, oltre che - a parere di
questo Tribunale remittente - ben piu' gravi sotto il  profilo  della
capacita' a delinquere e tali da destare un maggiore allarme sociale. 
    In primo luogo, ritiene questo Tribunale che la disposizione  che
viene sottoposta al vaglio di questa ecc.ma Corte preveda  un  minimo
edittale di pena manifestamente eccessivo, tale da non consentire  di
adeguare la sanzione alle circostanze specifiche del  fatto  concreto
e, in modo particolare, agli effettivi  profili  di  allarme  sociale
conseguenti alla condotta posta in essere dagli imputati P. e G. 
    A  tal  proposito,  e'  necessario  premettere  come   la   ratio
incriminatrice dell'art. 567 comma 2 c.p. debba  essere  individuata,
anche  con  il   conforto   della   miglior   dottrina   penalistica,
nell'esigenza di assicurare la certezza e  la  fedelta'  dello  stato
civile  del  neonato,  attribuitogli  al   momento   della   nascita,
attraverso  la  corretta  e  veritiera   formazione   del   documento
finalizzato a certificarlo, ossia l'atto di nascita, in modo tale  da
garantire l'attribuzione al neonato della sua  discendenza  effettiva
(maternita' e paternita' naturali),  mettendolo  al  riparo  da  ogni
tentativo di mistificazione ed alterazione del suo stato, a qualsiasi
titolo posti in essere. 
    Il bene giuridico tutelato dalla norma in  questione  dev'essere,
quindi, ravvisato nella certezza all'attribuzione veritiera e  fedele
della propria maternita' e della  propria  paternita'  naturale,  che
costituisce un diritto fondamentale di ogni individuo, tanto sotto un
profilo di carattere morale (inteso  quale  diritto  a  conoscere  le
proprie radici e la propria discendenza) quanto sotto un  profilo  di
natura  materiale  (per  quanto  riguarda  gli  aspetti   di   natura
successoria, conseguenti al rapporto di filiazione, anche al di fuori
dei vincolo matrimoniale). 
    E' evidente  che,  allorquando  e'  stato  promulgato  il  Codice
Penale, l'atto di nascita,  contenente  le  dichiarazioni  presentate
all'Ufficiale di Stato Civile al fine di attribuire la  maternita'  e
la paternita' naturali al neonato, costituiva il principato - se  non
l'unico - strumento per attestare e dimostrare lo stato civile  dello
stesso. 
    Conseguentemente, era necessario tutelare il bene giuridico sopra
indicato; ossia il diritto  del  neonato  alla  corretta  e  veridica
attribuzione della propria discendenza, attraverso la  previsione  di
una sanzione penale particolarmente incisiva e severa,  che  potesse,
tra le altre finalita', svolgere un'adeguata funzione deterrente,  al
fine di scoraggiare (in un'ottica general-preventiva) ogni  tentativo
di formazione di un atto  di  nascita  non  corrispondente  al  vero,
mediante false attestazioni, false certificazioni o altre falsita'. 
    Non puo' non mettersi in evidenza, infatti, la  circostanza  che,
stante la mancanza di strumenti alternativi all'atto di  nascita  che
consentissero di ricostruire con certezza gli effettivi  rapporti  di
maternita'  e  paternita'  naturali  del  neonato,  la  formazione  -
attraverso dichiarazioni contrarie al vero - di un  atto  di  nascita
infedele  avrebbe  reso  estremamente  ardua,  se   non   addirittura
impossibile (soprattutto con il trascorrere del tempo),  la  corretta
attribuzione dell'effettivo stato civile del neonato. 
    La previsione di un range di pena estremamente  elevato  (con  un
minimo di 5 ed un massimo di 15 anni di reclusione) trovava,  quindi,
la propria ragione giustificativa nel disvalore eccezionalmente grave
della condotta, atteso che  dichiarare  false  attestazioni,  fornire
false certificazioni o porre  in  essere,  comunque,  altre  falsita'
volte a  formare  un  atto  di  nascita  non  veritiero  significava,
sostanzialmente e quasi  certamente,  privare  il  neonato  dei  suoi
genitori naturali (entrambi od uno solo), con le conseguenze dannose,
facilmente  prevedibili,  tanto  a  livello  morale   -   psicologico
(mancanza  o,  comunque,  incompleta  ed  inesatta  conoscenza  della
propria discendenza reale) tanto a  livello  economico  -  materiale,
nell'ambito dei rapporti ereditari. 
    In tal senso, il disvalore della condotta  criminosa  contemplata
dal secondo comma dell'art. 567 c.p. (alterazione di  stato  mediante
formazione di un atto di nascita falso, che qui interessa)  risultava
sicuramente piu' intenso rispetto a quello della  condotta  tipizzata
dal primo comma della medesima norma, che presuppone l'alterazione di
stato civile non gia' mediante la formazione di un atto falso  bensi'
attraverso la sottrazione del neonato e la sua  sostituzione  con  un
altro, entrambi comunque gia' riconosciuti e quindi, muniti  di  atti
di nascita  veritieri,  cosi'  configurando  una  condotta  puramente
materiale che, per quanto grave, consentiva, comunque, di  attribuire
correttamente - in futuro - ciascun interessato lo stato  civile  suo
proprio, con  maggiore  facilita'  rispetto  alla  falsificazione  ab
origine dell'atto di nascita. 
    Il panorama normativo  cosi'  descritto,  certamente  adeguato  e
calzante alle esigenze di tutela dello stato civile del  neonato,  al
momento della promulgazione del Codice Penale, non puo'  piu'  essere
considerato adeguato alla situazione concreta  attuale  e,  pertanto,
non risponde piu' all'effettivo  bisogno  di  salvaguardia  del  bene
giuridico protetto dalla norma ne'  allo  specifico  allarme  sociale
delle condotte criminose poste in essere in violazione della stessa. 
    I progressi scientifici, medici e tecnologici  realizzatisi,  con
un'accelerazione  sempre  maggiore,  soprattutto  negli  ultimi  anni
consentono, infatti, di accertare l'effettiva paternita' e maternita'
di un individuo - con una certezza pressoche' assoluta  -  attraverso
accertamenti svolti sul proprio DNA (le cosiddette "prove tecniche"),
con  procedure   minimamente   invasive   (essendo   sufficiente   il
prelevamento di campioni biologici -  sangue,  saliva,  capelli...  -
degli  interessati),  del  tutto  prive  di  pericolosita',   nonche'
particolarmente rapide ed economiche. 
    Di  tale,  fondamentale,  innovazione  scientifica  hanno  tenuto
conto,  anzitutto,  il   legislatore,   prevedendo   alcune   novelle
legislative, anche in  ambito  penalistico  (si  pensi,  ad  esempio,
all'introduzione, con legge del 30.06.2009 n. 85 degli artt.  224-bis
e 359-bis c.p.p.) quanto la giurisprudenza, anche  di  questa  ecc.ma
Corte. 
    A  tal  proposito,  giova  richiamare  la  sentenza  della  Corte
costituzionale n. 266 del 21.06.2006, con  cui  e'  stata  dichiarata
l'illegittimita' costituzionale dell'art.  235  comma  1  n.  3  c.c.
(norma che  prevede  i  casi  in  cui  e'  ammessa  l'azione  per  il
disconoscimento della  paternita')  "nella  parte  in  cui  subordina
l'esame delle "prove tecniche", da cui risulta che il figlio presenta
caratteristiche genetiche o del gruppo  sanguigno  incompatibili  con
quelle del presunto padre alla  previa  dimostrazione  dell'adulterio
della moglie," in tal modo sdoganando il  ricorso  agli  accertamenti
sul materiale  genetico  (in  particolare,  il  DNA)  ed  avvalorando
l'intrinseca attendibilita' dei risultati conseguenti. 
    Lo stesso legislatore,  con  la  riforma  operata  attraverso  il
d.lgs. n. 154 del 28.12.2013  (cosiddetta  "riforma  del  diritto  di
famiglia")  ha  profondamente  innovato,  tra  le  altre,  anche   la
disciplina civilistica in materia di filiazione legittima e naturale,
da un lato parificando in toto lo status di  figlio  legittimo  e  di
figlio naturale (nato al  di  fuori  di  un  rapporto  matrimoniale),
dall'altro ridimensionando  notevolmente  l'importanza  dell'atto  di
nascita ai fini della prova della  filiazione  (a  qualsiasi  titolo,
legittima o naturale) e dando,  conseguentemente,  maggior  incidenza
alle cosiddette "prove tecniche," ossia agli accertamenti sul corredo
genetico degli interessati. 
    E' pur vero che, anche nell'attuale impianto normativo, l'atto di
nascita costituisce, ai sensi dell'art. 236 c.c., la principale prova
dello stato di filiazione legittima, tuttavia, a differenza di quanto
previsto dal Codice Civile prima della riforma del 2013, il novellato
art.  239  (in  combinato  disposto  con  l'art.  238)  consente   la
reclamabilita' di uno stato di figlio contrario a  quello  attribuito
dall'atto di nascita (anche) nell'ipotesi in cui il neonato sia stato
iscritto come  figlio  di  ignoti  ovvero  in  conformita'  di  altra
presunzione di paternita'. 
    Inoltre, l'art. 243 c.c. riconosce  anche  al  figlio  (oltre  al
presunto padre ed alla madre) l'azione per il  disconoscimento  della
paternita',  gravandolo  dell'obbligo  di  fornire  la   prova   (con
qualsiasi mezzo, ai sensi del precedente art. 241, e,  quindi,  anche
con il ricorso alle "prove tecniche") dell'insussistenza del rapporto
di filiazione. Occorre, altresi', notare che, in caso di  esperimento
vittorioso  dell'azione  di  disconoscimento  della  paternita',   il
figlio, cosi' rimosso il precedente statua, ha  la  possibilita',  ex
art. 239 comma 4 di promuovere  l'azione  per  reclamare  un  diverso
stato  di  figlio,  ovvero  l'azione  per  il  riconoscimento   della
paternita' che, ai sensi dell'art. 244 puo' essere proposta anche dal
figlio ovvero da un curatore speciale, anche in questo caso dando  la
prova del rapporto di filiazione "con qualunque mezzo," tra cui anche
gli accertamenti genetici. 
    Al di fuori del  rapporto  di  filiazione  legittima,  il  Codice
Civile  contempla  la  possibilita'  di  effettuare  indagini   sulla
paternita' e la maternita', anche attraverso i predetti  accertamenti
sul DNA, al fine di procedere al riconoscimento  dei  figli  naturali
(ai quali sono, attualmente, attribuiti  uno  statua  ed  una  tutela
giuridica analoghi a quelli dei figli legittimi), nonche' nell'ambito
dell'azione promossa per  ottenere  la  dichiarazione  giudiziale  di
paternita' e maternita'. 
    Anche in quest'ultimo caso, la prova del rapporto  di  filiazione
puo' essere data "con ogni mezzo", ai sensi  dell'art.  269  comma  2
c.c., facendo ricorso, in altre  parole,  (anche)  agli  accertamenti
genetici che costituiscono,  attualmente,  il  mezzo  di  prova  piu'
diffuso ed in grado di assicurare il maggior livello di certezza  dei
risultati. 
    Proprio  la  Corte  costituzionale,  a  riprova   dell'importanza
riconosciuta al bene giuridico della certezza  del  proprio  stato  e
della  propria  discendenza  e  del  ruolo  di  primaria   importanza
rivestito, in tal  senso,  dalle  "prove  tecniche,"  e'  intervenuta
dichiarando - con sentenza n. 494 del 28.11.  2002,  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 278 c.c. nella  parte  in  cui  "esclude  la
dichiarazione giudiziale della paternita' e maternita' naturali e  le
relative indagini, nei casi in  cui,  a  norma  dell'art.  251  primo
comma, il riconoscimento dei figli incestuosi e' vietato"  (peraltro,
il legislatore, con il citato d.lgs. n.  154/2013,e'  successivamente
intervenuto sull'art. 251  c.c.,  ammettendo  il  riconoscimento  dei
figli incestuosi, previa autorizzazione del Giudice). 
    A fronte delle anzidette modifiche  del  contesto  normativo,  si
puo'  cogliere  il  ridimensionamento  della  funzione  dell'atto  di
nascita ai fini  dell'accertamento  della  discendenza  naturale  del
neonato. Infatti, sebbene l'atto di, nascita  costituisca  ancora  la
prova principale del rapporto, di filiazione, nondimeno la maternita'
e la paternita' naturali possono essere acclarate, laddove l'atto  di
nascita risulti mancante ovvero alterato, attraverso altri  mezzi  di
prova,  specificamente  gli  accertamenti  genetici  e   sul   gruppo
sanguigno, idonei a garantire risultati  aventi  certezza  pressoche'
assoluta. 
    Ne consegue che l'ipotesi di  alterazione  di  stato  contemplata
dall'art. 567 comma 2 c.p.,  pur  mantenendo  ancora  sicuro  rilievo
penale, risulta assolutamente ridimensionata sotto il  profilo  della
gravita' e del disvalore della condotta. 
    La possibilita' di ricorrere ad  altri  strumenti  di  prova  per
accertare i rapporti di filiazione facenti capo al neonato diminuisce
sensibilmente, rispetto al  passato,  le  conseguenze  dannose  della
falsificazione  dell'atto  di  nascita,  mediante  dichiarazioni  non
veritiere, atteso che, grazie  alle  innovazioni  medico-scientifiche
sopra indicate, il  corretto  accertamento  dello  stato  civile  del
neonato, pur in presenza di un atto di' nascita non corrispondente al
vero, risulta comunque possibile, e  non  particolarmente  complesso,
attraverso   accertamenti   sicuri,   non   invasivi   e   facilmente
accessibili. 
    In tal  senso,  al  contrario  di  quanto  accadeva  in  passato,
quand'era ancora precluso il ricorso a tecniche  di  accertamento  ed
analisi  del  corredo  genetico  di   un   individuo,   si   profila,
attualmente, piu' grave ed allarmante la fattispecie  di  alterazione
di stato mediante la sostituzione di neonato,  contemplata  al  primo
comma dell'art. 567  c.p.  e  sanzionata  con  una  pena  decisamente
inferiore rispetto  a  quella  prevista  dalla  disposizione  de  qua
(reclusione da 3 a 10 anni), 
    Tale norma incriminatrice presuppone, infatti, una  condotta  che
si sostanzia nella materiale apprensione  del  neonato  e  nella  sua
sostituzione con  un  altro  e  che  denota,  pertanto,  una  maggior
risoluzione ad agire  da  parte  del  reo,  una  consapevolezza  piu'
marcata dell'intrinseca antigiuridicita' della condotta ed  una  piu'
spiccata propensione a delinquere, rispetto alla  mera  dichiarazione
di  un  dato  non  corrispondente  al  vero  che,   seppur   comunque
caratterizzata da antigiuridicita', puo' essere determinata anche  da
un basso livello di scolarizzazione e di conoscenza  dell'ordinamento
giuridico  da  parte  del  dichiarante,  che  non  gli  consente   di
comprendere con pienezza il disvalore della condotta. 
    Il Capo III del Titolo XI del Codice Penale contempla,  altresi',
ulteriori  disposizioni  incriminatrici  che  appaiono,  attualmente,
connotate da maggior gravita' della condotta e  tali  da  destare  un
maggior allarme  sociale,  quali  la  soppressione  di  stato  civile
mediante occultamento del neonato, sanzionato con la pena da 3  a  10
anni (art. 566 comma 2 c.p.) e l'occultamento di stato civile  di  un
figlio, punito con la reclusione da 1 a 5 anni (art. 568 c.p.). 
    A fronte delle considerazioni che precedono,  si  deve  osservare
come la cornice edittale di pena prevista dall'art. 567 comma 2  c.p.
appaia,  quindi,  assolutamente  eccessiva  rispetto  alla   gravita'
oggettiva della condotta  incriminata,  alla  luce  delle  conoscenze
mediche, scientifiche e tecnologiche attuali. 
    Oltre ai rilievi sopra marginati, si deve rilevare  la  manifesta
eccessivita', in particolare, del minimo edittale  di  pena  previsto
dall'art. 567 comma 2 c.p., determinato in 5 anni di reclusione,  che
non consente al Giudice  di  eventualmente  adeguare  il  trattamento
sanzionatorio alle circostanze concrete del fatto. 
    Non  si  puo',  infatti,   sottacere   come   la   determinazione
psicologica  che  spinge  il  soggetto  agente  a  presentare   false
certificazioni o attestazioni o a  rendere  false  dichiarazioni,  al
fine di alterare  lo  stato  civile  di  un  neonato,  sia,  sovente,
connotata non gia' da pulsioni egoistiche o finalizzate a  trarre  un
lucro, un indebito vantaggio o un ingiusto profitto dall'alterazione,
bensi' dal desiderio di aiutare, in qualche modo, proprio il  neonato
che si va, falsamente, a riconoscere come figlio proprio. 
    Si puo', quindi,  sostenere  che,  in  molti  casi,  la  condotta
antigiuridica tipizzata dall'art. 567 comma 2  c.p.  viene  posta  in
essere proprio nell'interesse del neonato stesso (magari privo di  un
padre o che il genitore naturale non intende riconoscere),  al  quale
il soggetto agente  intende  dare  comunque  dei  legami  famigliari,
ancorche' in un'ottica certamente distorta e scorretta. 
    In  tal  senso,  anche  laddove  si  ritenesse   applicabile   la
circostanza attenuante  di  cui  all'art.  62  n.  1  c.p.,  la  pena
concretamente applicabile al soggetto  agente  rimarrebbe,  comunque,
eccessiva rispetto  alle  caratteristiche  concrete  del  fatto,  con
diverse ripercussioni pratiche che appaiono del  tutto  irragionevoli
ed ingiustificate. 
    In primo luogo, la sanzione  irrogata,  ancorche'  determinata  a
partire dal minimo edittale ed eventualmente ridotta per l'attenuante
sopra indicata, precluderebbe, comunque, la possibilita' di concedere
i benefici della sospensione condizionale  della  pena  e  della  non
menzione della condanna ad un soggetto che, per quanto abbia commesso
un reato, non ha manifestato alcun  profilo  antisociale  o  tale  da
destare un particolare allarme sociale. 
    In secondo luogo - e conseguentemente - la sanzione concretamente
applicata non potrebbe che  apparire,  ad  un  soggetto  che,  lo  si
ribadisce, ha ritenuto (erroneamente)  di  agire  nell'interesse  del
neonato e non gia' per un proprio tornaconto, assolutamente priva  di
ogni giustificazione logica e, quindi, fondamentalmente ingiusta. 
    Questo Tribunale e' consapevole che l'ecc.ma Corte adita ha  gia'
avuto   modo   di   pronunciarsi   su   questioni   di   legittimita'
costituzionali del medesimo tenore di questa proposta  in  tale  sede
ma, nondimeno, osserva che si tratta  di  decisioni  precedenti  alle
modifiche normative sopra illustrate  e  che,  conseguentemente,  non
potevano  tenere  conto  del  riconoscimento  -   anche   a   livello
legislativo -  del  valore  e  dell'importanza  dei  nuovi  strumenti
tecnici, scientifici e medici di accertamento dei  rapporti  genetici
tra individui. 
    Tale riconoscimento, como' piu' volte ribadito, ha  profondamente
alterato, a parere di  questo  Tribunale  remittente,  i  presupposti
giustificativi  del  quantum  della   sanzione   penale   contemplata
dall'art. 567 comma 2 c.p., determinando un sostanziale  ed  evidente
squilibrio tra la gravita' della condotta  tipica  contemplata  dalla
norma incriminatrice e la cornice edittale di pena prevista, con cio'
rendendo possibile un nuovo vaglio della legittimita'  costituzionale
della disposizione in oggetto,  da  parte  di  questa  Ill.ma  Corte,
quantomeno sotto il profilo della ragionevolezza. 
    Tali  considerazioni  trovano,  altresi',  conferma   in   alcuni
pronunciamenti della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che, facendo
riferimento a disposizioni del diritto comunitario, hanno contribuito
a ridimensionare sensibilmente la pregnanza dell'atto di nascita come
strumento  volto  all'accertamento  dei  rapporti  di  paternita'   e
maternita' e, conseguentemente, il disvalore delle sue alterazioni. 
    In particolare, con la sentenza del 27.01.2015 (causa Paradiso  e
Campanelli c. Italia), la Sezione Seconda della CEDU  ha  accolto  il
ricorso, per violazione dell'art. 8  della  Convenzione  Europea  dei
Diritti dell'Uomo, proposto da una coppia di coniugi italiani  contro
lo Stato Italiano, laddove non era stato riconosciuto (ed  era  stato
considerato  "alterato",  con  cio'  integrando  il  delitto  di  cui
all'art. 567 comma 2 c.p, che qui interessa) l'atto di nascita in cui
un  neonato  veniva  riconosciuto  come  figlio  dei   due   coniugi,
nonostante lo stesso fosse stato concepito in  vibro,  attraverso  le
tecniche di fecondazione artificiale eterologa avvenuta in Russia,  e
nonostante gli accertamenti genetici sul DNA del marito e del neonato
avessero attestato l'inesistenza di  qualsivoglia  rapporto  genetico
tra i due. 
    La Corte ha  richiamato,  piu'  nel  dettaglio,  l'art.  8  della
Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che  ha  assunto  violato,
laddove garantisce, per ogni individuo  "il  rispetto  della  propria
vita privata e familiare,  del  proprio  domicilio  e  della  propria
corrispondenza," con  il  divieto  di  "ingerenza  di  una  autorita'
pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che,  in  una  societa'
democratica, e' necessaria alla sicurezza  nazionale,  alla  pubblica
sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa  dell'ordine
e alla prevenzione dei reati, alla protezione della  salute  o  della
morale, o alla protezione dei diritti e delle liberta' altrui." 
    La Corte ha precisato, quindi, che sono legittime le  limitazioni
previste dalle leggi nazionali di ogni singolo Stato, purche' volte a
"perseguire uno scopo legittimo", e siano  determinate  dall'esigenza
di "essere necessarie in  una  societa'  democratica,"  evidenziando,
altresi', che "la nozione di necessita' implica una ingerenza fondata
su un bisogno sociale imperioso e, in particolare, proporzionato allo
scopo legittimo perseguito." 
    A parere di questo Tribunale,  se  e'  sicuramente  legittima  la
pretesa punitiva di comportamenti caratterizzati dall'alterazione  di
un atto di nascita, la previsione di una  cornice  edittale  di  pena
irragionevolmente elevata,  come  quella  contemplata  dall'art.  567
comma 2 c.p., contrasta - violando il citato art. 8  CEDU  -  con  la
necessaria proporzione tra l'ingerenza dell'autorita' pubblica  nella
vita privata e nei rapporti  famigliari  di  ciascun  individuo  che,
comunque, e' rappresentata dalla norma incriminatrice in questione, e
la tutela dell'ordine pubblico e della pubblica fede  che  la  stessa
intende perseguire, quale  scopo  legittimo,  soprattutto  in  quanto
preclude  al  Giudice  di  merito  la  determinazione  di  una   pena
ragionevolmente correlata alla gravita' del fatto  e  ai  motivi  che
hanno spinto l'imputato ad agire. 
2. I principi di rango costituzionale violati dall'art. 567  comma  2
c.p. 
    Costituisce principio assodato  che  e'  precluso  al  vaglio  di
questa ecc.ma Corte qualsivoglia sindacato  di  costituzionalita'  in
relazione  alle  questioni  strettamente   inerenti   alla   politica
criminale,   le   valutazioni   punitive   e    le    quantificazioni
sanzionatorie, di volta in volta decise dal legislatore. 
    Nondimeno, si ritiene che, nel  caso  di  specie,  la  previsione
sanzionatoria  dell'art.  567  comma  2  c.p.  non  costituisca   una
legittima scelta normativa di politica criminale. 
    Infatti, a fronte  di  un'evoluzione  della  situazione  fattuale
concreta (di cui il legislatore ha preso atto, ad esempio  attraverso
la sopra descritta riforma del diritto di famiglia,  operata  con  il
d.lgs. n. 154/2013), i profili di criticita'  evidenziati  da  questo
Tribunale non sono mai  stati  presi  in  considerazione  dall'organo
titolare del potere legislativo. 
    In forza delle considerazioni che precedono, pertanto, la cornice
edittale  di  pena  prevista  dall'art.  567  comma  2  c.p.   appare
contrastante con numerosi principi di livello costituzionale. 
    In primis, la norma si pone in  contrasto  con  il  principio  di
ragionevolezza, che costituisce il fondamento del dettato dell'art. 3
Cost., laddove sanziona con una  pena  decisamente  piu'  elevata  un
comportamento che, ad oggi, ha perduto quei connotati di  gravita'  e
di allarme sociale che giustificavano  un  trattamento  sanzionatorio
particolarmente  rigoroso  e  severo,  rispetto  ad  altre  condotte,
previste e punite dal medesimo Capo III del Titolo XI,  che  appaiono
ugualmente se non ancora piu' gravi. 
    Questa Ill.ma Corte adita ha ribadito, con numerose pronunce,  la
possibilita' di vagliare la cornice edittale di pena determinata  dal
legislatore,  sotto  il  principio  della  ragionevolezza   di   tale
determinazione, ovvero della sua rispondenza ai bisogni effettivi  di
tutela della collettivita' e al grado effettivo di antigiuridicita' e
gravita' del comportamento incriminato. 
    A tal proposito, giova richiamare la sentenza n.  409  del  1989,
con  la  quale  la  Corte  ha  affermato   che   "il   principio   di
uguaglianza... esige che la pena sia proporzionata al  disvalore  del
fatto illecito coi  messo,  in  modo  che  il  sistema  sanzionatorio
adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a  quella  di
tutela delle posizioni  individuali,"  precisando  altresi'  che  "le
valutazioni all'uopo  necessarie  rientrano  nell'ambito  del  potere
discrezionale del legislatore, il cui esercizio puo' essere censurato
soltanto nei casi in cui non sia stato  rispettato  il  limite  della
ragionevolezza,"  nonche'  la  sentenza  n.  341  del  1994  in  cui,
dichiarando  l'illegittimita'  costituzionale  del  minimo   edittale
previsto dalla fattispecie di oltraggio di cui all'art. 341  comma  1
c.p.,  pur  confermando  "il   principio   secondo   cui   appartiene
discrezionalita' del legislatore la determinazione della quantita'  e
qualita' della sanzione penale" e  ribadendo  che  "non  spetta  alla
Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal  legislatore,  ne'
stabilire quantificazioni sanzionatorie", ha tuttavia  richiamato  il
proprio compito  di  "verificare  che  l'uso  della  discrezionalita'
legislativa in materia rispetti il limite di  ragionevolezza"  e  "di
valutare la rispondenza della previsione contestata  segnatamente  al
principio di' proporzionalita'.". 
    Piu' nel dettaglio, con riferimento alla norma impugnata,  appare
irragionevole la previsione di un trattamento sanzionatorio piu' mite
per  comportamenti  che,  ancorche'  attraverso  diverse   modalita',
incidono, comunque,  sullo  stato  civile  del  neonato,  precludendo
(salvi  i  futuri  accertamenti   sul   patrimonio   genetico   degli
interessati) il corretto accertamento della discendenza effettiva del
neonato (in particolare, i gia' richiamati delitti di soppressione di
stato e di occultamento di  stato).  Ugualmente  irragionevole  -  e,
pertanto, contrastante con il principio di cui all'art. 3 Cost. -  e'
la previsione di un trattamento sanzionatorio  meno  severo  per  una
condotta, quale la sostituzione di un neonato contemplata dal comma 1
dell'art. 567 c.p., che non soltanto  conduce  all'esito  analogo  di
alterare lo stato civile del  neonato  ma  si  caratterizza  per  una
maggior propensione a delinquere del soggetto agente, il quale non si
limita ad attestare o dichiarare fatti contrari al vero  ma  pone  in
essere un vero e proprio scambio di neonati, risolvendosi a  compiere
un'azione che, anche ad un soggetto scarsamente scolarizzato e con un
basso  livello  di  cultura,  non  puo'  che  apparire  assolutamente
illecita. 
    In secondo luogo, l'art. 567 comma 2 c.p. si  pone  in  contrasto
con il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. Come  sopra
rilevato, infatti, la previsione di una pena eccessiva rispetto  alla
gravita' della  condotta,  soprattutto  quanto  al  minimo  edittale,
nonche' sproporzionata rispetto alle altre condotte contemplate dalle
disposizioni del medesimo Capo, impedisce al Giudice di  adeguare  la
sanzione concretamente inflitta all'imputato, in  caso  di  condanna,
alle  circostanze  del  fatto,  e  al  reo  stesso   di   comprendere
adeguatamente, con piena consapevolezza,  il  disvalore  del  proprio
comportamento. 
    Di  conseguenza,  appare  radicalmente  frustrata  la   finalita'
propria della sanzione penale, come solennemente sancita dall'art. 27
comma 3 Cost.,  laddove,  per  poter  effettivamente  tendere  a  una
significativa rieducazione del condannato che non  si  riduca  a  una
mera  formalita'  altisonante,  la  pena  dev'essere,   innanzitutto,
compresa  dal  reo,  nella  sua  entita'  e  nei   suoi   presupposti
giustificativi, tenuto  conto  che  l'applicazione  di  una  sanzione
penale eccessiva e non  commisurata  alle  circostanze  concrete  del
fatto non puo' che apparire  ingiusta,  agli  occhi  del  condannato,
cosi' ingenerando in lui la  convinzione  di  essere  vittima  di  un
sopruso da parte dell'Autorita' Giudiziaria, sentimento che osta,  in
radice, a una reale e profonda resipiscenza. 
3. Rilevanza  della  questione  di  legittimita'  costituzionale  sul
giudizio a quo. 
    La questione di legittimita' che questo  Tribunale  sottopone  al
vaglio di questa ecc.ma Corte ha certamente  rilevanza  nel  presente
processo a carico di P.S. e G.A. tenuto  conto  che,  ferma  restando
ogni considerazione  di  merito  in  ordine  alla  sussistenza  della
responsabilita' penale  degli  imputati,  in  caso  di  condanna  non
potrebbe che trovare applicazione la norma di  cui  si  contesta,  in
questa sede, l'aderenza al dettato costituzionale, con la conseguente
determinazione della sanzione da irrogare inevitabilmente all'interno
della cornice edittale della stessa.